La solitudine del canottiere

La vita è fatta di piccole solitudini. In alcuni casi, può trattarsi di una tremenda condanna, in altri di una meravigliosa conquista. Tuttavia, non esiste solo quella dei numeri primi, come scriveva Paolo Giordano, o dell’ala destra, come recitava Fernando Acitelli. C’è anche quella del canottiere.

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Nel caso specifico di chi stringe due remi tra le mani ed è seduto su un carrello (e poco importa se in barca si è da soli, in due, in quattro o in otto), si tratta di una verifica del proprio valore.

 Il canottiere convive con la solitudine

Il canottaggio, e non scopro nulla di nuovo, è uno sport duro soprattutto a livello mentale. Perché in mezzo all’acqua, con le mani che bruciano per le piaghe da remo e un pontile che invece di avvicinarsi sembra essere sempre più lontano, in testa hai una sola domanda: ma chi me l’ha fatto fare? Però vai avanti, colpo su colpo.

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E una volta arrivato al traguardo, qualunque esso sia, ti volti indietro stremato e guardi la tua piccola (immensa) impresa sportiva. Sorridi e ti fai i complimenti. Questa volta ad alta voce però, anche se non c’è nessun altro ad ascoltarti. E in quel preciso momento comprendi due cose: 1) sei felice; 2) lo rifarai molto presto. Roberto Gervaso diceva che la solitudine ci dà il piacere d’una grande compagnia: la nostra. Aveva ragione.

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Un commento

  1. Precisazione: non devi nemmeno voltarti, stai già guardando indietro =) strano sport, arrivare senza sapere nulla di quello che è successo prima di te, hai una sola scelta, arrivare prima degli altri, altrimenti la storia te la devi fare raccontare, e quello che vedi davanti (dietro) è solo un immenso, sincero vuoto.

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