Canottaggio: i giorni sì e quelli no. Oggi no

C’è qualcosa di sbagliato nel mio canottaggio. Nonostante l’impegno profuso, continuo a cadere in acqua. L’ultima volta, per non farmi superare da un dragonboat, ho aumentato il numero dei colpi. Il mio singolo non ha gradito la sollecitazione, inclinandosi quel tanto che bastava a farmi scivolare fuori, senza ribaltarsi.

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Piuttosto che accettare l’idea dell’esistenza di tanta incapacità,  c’è chi preferisce credere che lo faccia di proposito. Non è così. Se prima ero io a cadere in acqua, ora è la barca a sputarmi fuori. E la cosa frustrante non è nuotare, ma non capire perché accade.

I giorni sì e quelli no nel canottaggio

Philiph Roth ha scritto che è questo il modo per sapere di essere vivi: sbagliando. E io, evidentemente, sono ancora vivo. Il canottaggio è una “scomfort zone” che richiede forza, resistenza ed equilibrio. Questo sport ti travolge e ti disorienta. Perché non usa il tuo equilibrio. Quello lo sposta. Qui serve ben altro. L’arte del remo ti chiede la capacità di rimanere in bilico tra l’avere il controllo di tutto e l’incoscienza di lasciarti andare completamente.

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Non cambia quello che sei. Amplifica i sensi e la percezione che hai della realtà. E quando il mio cervello non trova le risposte che cerca, insorge e si oppone. Sul carrello della mia barca la mia mente è la Kamchatka del Risiko: il luogo dove resistere. «Peppe ma che bbuò capì?», mi ripete Mario Palmisano. «Il canottaggio non è uno sport di testa, ma di cuore. La barca non la devi capire, la devi sentire. La differenza tra chi vince e chi non ci riesce è tutta qui».

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Il problema è questo: non sento nulla. Se non le voci di dentro che mi ripetono “fin qui tutto bene”. Invece, bisognerebbe essere come la bicicletta che avevamo da piccoli. Senza freni. Sarebbe bello maturare senza crescere. Purtroppo non è possibile. Brian Hoffman sosteneva che i nostri problemi sono iniziati quando abbiamo smesso di saltare nelle pozzanghere e ci siamo preoccupati di non bagnarci i piedi. Aveva ragione. Prima o poi ci arriverò anche io. Nel frattempo, però, ci sarà qualcosa che posso fare? «Certo», mi dice Palmisano. «Continua a nuotare, strunz!».

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2 Commenti

  1. Ciao Peppe,

    Se posso. Mi sono commosso a leggerti, perché ho rivisto il me da piccolo, quando ho iniziato il mio percorso da canottiere.
    Ora che sono un ex, sento questo:

    Il canottaggio è difficilissimo se lo dai a mente “piena”. Bagni inattesi inclusi. È di una semplicità disarmante se fai il vuoto.

    È come meditare. Da quando mi sono avvicinato alle discipline olistiche, ho capito quello che prima “sentivo” solo.

    Remare è come meditare.
    Ma più bello.

    Un abbraccio,
    Nerio

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