Bruno Cipolla, l’uomo che “sussurrava” ai canottieri

Chi comanda le acque, guida la storia. Una frase entrata nella memoria della marina militare britannica, in quanto pronunciata dall’ammiraglio Horatio Nelson, ma che ben si sposa anche con una delle figure più importanti, ma meno considerate, del canottaggio: il timoniere. D’altronde, durante una gara gli occhi sono tutti puntati su chi rema e non sui “piccoli” grandi uomini che “sussurrano” a poppa o a prua.

Il mitico timoniere Bruno Cipolla
Il mitico timoniere Bruno Cipolla

Perché la sequenza di voga è una lunga catena di attimi e i canottieri possono viverli uno per uno, senza pensare troppo a quelli appena trascorsi o che stanno per arrivare. Lusso che un timoniere non può permettersi, perché il suo compito non è “godersi” il viaggio, ma prevedere il futuro e cambiare con la propria voce il finale della storia. Ed è quello che nel 1968 alle Olimpiadi di Città del Messico fece Bruno Cipolla, che da timoniere portò alla medaglia d’oro il due con di Renzo Sambo e Primo Baran.

L’uomo che “sussurrava” ai canottieri

Quella di Bruno Cipolla non è solo una storia del passato, ma soprattutto di un grande presente. Perché a distanza di quasi mezzo secolo da quella medaglia, questo splendido atleta continua a divertirsi in barca, cercando di trasmettere la sua passione e la sua esperienza anche ai giovani che si sono affacciati da poco all’arte del remo.

Primo Baran (a sinistra), Renzo Sambo (al centro) e Bruno Cipolla (a destra). Foto tratta dal volume Centovent'anni in voga
Primo Baran (a sinistra), Renzo Sambo (al centro) e Bruno Cipolla (a destra). Foto tratta dal volume Centovent’anni in voga

 Bruno, timonieri si nasce o si diventa?

«Diciamo che si nasce. Per quanto mi riguarda, mi sono avvicinato a questo sport per caso. All’epoca giocavo a calcio con la squadra parrocchiale della mia città, vicino a Treviso. Uno dei miei compagni di squadra faceva anche canottaggio e un giorno mi propose di andare con lui per fare il timoniere. Da li è iniziata la mia carriera».

Alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968, la tua vittoria con Sambo e Baran ebbe un prologo curioso: quando ti sei pesato, non hai superato i  50 kg prescritti dal regolamento. E’ vero che per non dover gareggiare con una zavorra allacciata alla schiena, ti sei messo a bere acqua finché non hai raggiunto il peso richiesto e poi, superato l’esame, hai cominciato a correre e sudare per eliminare il liquido superfluo?

«Assolutamente sì, è tutto vero. Ma era la mia tattica. Cercavo sempre di tenermi sui 48,5/49 kg, in modo da non prendere zavorra in barca, che all’epoca era una cosa spiacevole. Perché si usavano sacchetti di sabbia, che magari potevano sbilanciare la barca. Quindi, bevevo un litro e mezzo d’acqua e poi mi lanciavo in grandi corse per smaltirla».

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Nel 1968, quando hai vinto la medaglia d’oro, avevi solo 15 anni. E’ vero che sul podio olimpico, mentre Sambo e Baran piangevano come due bambini, eri l’unico che rideva?

«Eh sì, avevo tutta l’incoscienza dei miei 15 anni. Quando mi sono ritrovato sul gradino più alto del podio ho pensato di averla fatta proprio grossa. Anche perché, soprattutto in quegli anni, erano pochissimi i ragazzini che facevano i timonieri. Se non ricordo male eravamo solo in tre: io, un neozelandese e un francese. Insomma, è stata una bella soddisfazione».

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Visto da fuori, il ruolo del timoniere è molto sottovalutato. Quali sono le qualità che un atleta deve avere per svolgere al meglio questo compito?

«Ormai, a livello Olimpico, è rimasto solo 8. E su questa particolare barca il suo ruolo è fondamentale. Il timoniere deve avere la sensibilità di capire quale tattica impostare per la gara e nel caso deve essere in grado anche di cambiarla. Poi, molto dipende anche se si allena o meno con l’equipaggio. Se si allenano insieme, sa perfettamente quello che può chiedere ai suoi uomini, e soprattutto quando chiederglielo. Invece, se  è un timoniere occasionale, basta mettere un ragazzino che sappia andare dritto, ma il risultato sarà sempre inferiore».

bruno-cipolla5Ai Campionati Nazionali Universitari ti sei rimesso in gioco con un equipaggio con il quale sei stato insieme nemmeno due giorni. È stato più difficile 46 anni fa per un 15enne gridare ordini a due canottieri esperti come Sambo e Baran, oppure oggi per uno splendido 60enne farsi ascoltare da dei ragazzini?

«All’epoca era molto difficile, perché non te ne facevano passare una. Ma nonostante la mia giovane età avevo acquisito già una certa sicurezza. In un certo senso ho bruciato la mia adolescenza, perché sono cresciuto subito. Oggi, invece, ho il vantaggio che con un oro olimpico al collo e i capelli bianchi, tutti mi danno retta anche quando dico delle stupidate».

 Nel rapporto con i rematori, un timoniere si sente realizzato?

«Certo,  perché entri in sintonia con il vogatore e diventi un tutt’uno con lui. L’ho visto anche con  i ragazzi del San Cristoforo Cus Milano. In pochi giorni siamo entrati subito in sintonia. Se avessimo avuto più tempo per allenarci insieme avremmo guardato gli altri da lontano. Alla fine, ci siamo abbracciati senza pensare a chi avesse vogato meglio o peggio, o se io avessi fatto degli errori. È fondamentale per una squadra».

Non hai mai avuto il desiderio di metterti alla prova remando?

«L’ho fatto qualche volta per hobby, ma non mi è mai interessato. Mi piace quello che faccio, ormai è il mio ruolo. Ogni volta che esco in barca, anche se è a vela, mi mettono subito in mano un timone senza che nemmeno lo chieda».

 Agli occhi di uno spettatore, sembra che il timoniere gridi ai vogatori le peggio cose. In realtà, che cosa dice ai suoi canottieri?

«Niente di volgare, per carità! Si da un po’ il tempo, in entrata e in uscita, oppure se il timoniere ha una certa sensibilità e sente che manca la spinta di gambe, la chiama. Non bisogna dimenticare l’importanza della tattica. In gara diventa fondamentale, soprattutto quando sei punta a punta con i tuoi avversari oppure stai cercando di recuperare».

Alla fine della tua carriera ti sei laureato in psicologia dello sport, lavorando al fianco di atleti che hai aiutato a diventare grandi. Secondo la tua esperienza, un amatore del remo come riesce a superare i suoi limiti più importanti?

«Ho scelto psicologia dello sport, perché era quello che volevo fare dopo aver fatto sport come timoniere e come allenatore. Sono stato lo psicologo della Nazionale dal 1976  al 1980, per poi proseguire anche con altre discipline. Ho lavorato per la Benetton basket e la Sisley Volley, seguendo anche tanti atleti a livello individuale. Ma parliamo di professionisti. Per quanto riguarda gli amatori, bisogna fare un discorso a parte. Vedo tanti master che hanno fretta di diventare subito forti, ma questo non è possibile. Bisogna avere pazienza e ricostruire il fisico poco alla volta. Dopo tanti anni di inattività, la calma è la migliore terapia, perché a voler bruciare le tappe si possono correre anche grossi rischi per la salute. Perciò, non abbiate fretta. Allenatevi bene e con costanza e vedrete che una volta superati i vostri limiti “mentali”, ovvero l’idea della fatica, supererete anche quelli fisici e tecnici». 

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