In memoria di te. Ovvero di canottaggio, lacrime, cuore e altre frattaglie

Oggi è un anno che ho iniziato a scriverti. Anche se non ci sei più da tanto tempo. Hai lasciato vuoto il tuo carrello, ma hai lottato come una vera canottiera. Purtroppo non è bastato. Troppo forte il mostro contro cui ti sei dovuta misurare. E nonostante il finale, sei andata via con un sorriso, chiedendomi un ultimo favore: lasciarti andare. Come dovrei fare con la mia barca.

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Ma è dura sai, per quelli che restano. Il vero problema non è soffrire, ma fare in modo che il dolore non ti renda cattivo. Solo così educa. Matura. Riscatta. Altrimenti lo sprechi. Erri De Luca ha scritto che il dolore è un tempo di prigionia da scontare, senza ricorsi ne domande di grazia. E’ una distanza e va percorsa a piedi. Ma lui non è un canottiere.

In memoria di te

Chissà perché questi pensieri mi vengono in mente quando sono in barca. Invece dovrei concentrarmi sul gesto tecnico, come suggerivi tu. Forse perché questa distanza tra noi posso percorrerla solo a remi. O forse perché vorrei che fossi qui con me. A dirmi di non ostinarmi a tagliare le onde di punta, ma di assecondarle ogni tanto. A convincermi che andrà tutto bene. Di te ormai mi resta solo il piccolo remo di punta che ti regalai. Uguale al mio. Ma non scenderai mai dalla mia barca. Anche se a volte ti odio. Perché mi hai lasciato solo. Malgrado la promessa che ci saresti sempre stata.

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Tu, invece, mi dicevi che non ero solo. Anzi. Avevo fatto un miracolo, mettendo insieme un equipaggio straordinario, lungo tutta l’Italia. Isole comprese. Che ero un supereroe di questo sport, perché capace di diventarne in poco tempo contenitore e contenuto. Perché il mio canottaggio non ha confini, né colori, né bandiere. Perché dove altri costruiscono muri, con le parole continuo a disegnarci sopra delle porte. Avevi ragione. Ricevo tanti messaggi di persone che mi ringraziano. Mi dicono “è proprio così che mi sento”.

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La verità è che mi mancherai sempre. Tantissimo. Altro non so. Vorrei non pensarti, ma piove. Sento una goccia che mi bagna il viso. Allora mi fermo, alzo lo sguardo al cielo e vorrei solo riuscire a guardarlo come fanno gli altri. Senza domandargli nulla. Ma non riesco ad arginare i miei pensieri. Sono come l’acqua che scorre sotto di me. Così mi accorgo che non piove. Sono io che sto piangendo. Forse sto iniziando a lasciarti andare. Come la mia barca.

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Comunque non bisogna aver paura di piangere. Anzi. Fa bene. E per fortuna ne sono ancora capace. Come ha scritto Enrica Tesio non aiuta a guarire prima, ma almeno inganna l’attesa. Non preoccuparti per me. Non è niente, fa male solo quando respiro. Allora piango. Imparo. E vado avanti. Riprendo a remare per colmare la distanza che ci separerà sempre. Intorno a me ora c’è solo silenzio. Ma se mi concentro sui rumori di fondo riuscirò a sentirti. Ovunque tu sia andata. Ti troverò sempre lì. Nel mio battito che accelera. Ascoltato da nessuno.

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