Ho detto sì al canottaggio, ma non avevo capito la domanda

Il canottaggio è davvero strano, a volte. Anzi, è quasi sempre strano. Quando sei in barca non solo ti fa sentire di nuovo giovane, ma per moltissimo tempo ti sembra addirittura di non invecchiare affatto. Poi un bel giorno, all’improvviso, ti accorgi che gli anni ti sono piombati addosso tutti insieme.

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E così, alle 5.30 di una mattina come tante altre, ti alzi per andare ad allenarti. Ma prima di uscire di casa, guardandoti allo specchio, ti ricordi di un insegnamento del tuo mentore: nel canottaggio è fondamentale imparare ad ascoltare il proprio corpo. L’ho fatto. Sono tornato a dormire. Allora ho capito una cosa: ho detto sì all’arte del remo, ma non avevo capito la domanda.

Non avevo capito la domanda

E visto che in questo sport la cosa più importante non è dare la risposta esatta, ma fare la domanda giusta, qualche dubbio inizia a farsi strada nella tua mente. Perché un canottiere che non si pone mai degli interrogativi non va molto lontano. Così, ho chiesto a Mario Palmisano  se anche lui avesse l’impressione che nel mio approccio con il canottaggio abbia sbagliato quasi tutto. «Togli pure il quasi», mi fa sapere con la delicatezza che lo ha sempre contraddistinto. D’altronde, la struttura fisica del mentore di ogni canottiere, in relazione al suo peso, è adatta per cazziarlo ogni dieci minuti. Ma lui non lo sa e lo fa ogni cinque.

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In effetti, c’è qualcosa di errato nella mia metodologia di allenamento. Perché io corro, vado in bici, faccio pesi, remoergometro e barca, ma se la mattina non è mia moglie ad aprire la moka, col cavolo che facciamo il caffè. «Peppe ti devi mettere in testa una cosa: amma faticà!», mi dice. Non solo perché altre strade non esistono, ma perché nel canottaggio è così che funziona. Che tradotto in parole povere significa “Non ci sono cazzi”. Secondo i “saggi del remo”, che da generazioni si tramandano le sacre leggi di questo sport, la sofferenza apre gli occhi, aiutando a vedere cose che non si potrebbero percepire altrimenti. Insomma, la fatica è una specie di bisogno dell’organismo per prendere coscienza di uno stato nuovo.

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Nel caso specifico del canottaggio, poi, il dolore è debolezza che lascia il corpo. Peccato che il mio cervello parli una lingua differente. E pensare che avevo scelto il canottaggio perché avevo voglia di uno sport leggero, ma decisamente invitante, che sapesse coniugare il divertimento con la mia voglia di non fare assolutamente nulla. E possa colpirmi un aster… Alla fine, la morale che ho imparato da questa storia è: se qualcuno vi chiede di essere migliori di quello che siete, state tranquilli. Potreste anche riuscirci.

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