Canottaggio: abituati a rischiare

Ho un terzo degli anni che occorrono per andare in pensione. Eppure, nella mia vita ho fatto molto di più rispetto all’esistenza media di un pensionato attuale. Quando avevo diciotto anni, mi hanno detto che sarei diventata sorda e che avrei dovuto aspettare quel giorno, per capire se c’era possibilità di recuperare l’udito.

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Avevo diciotto anni. Ancora non pensavo alla maturità e passavo i pomeriggi a metà tra la chitarra e la bicicletta. Ricordo di aver iniziato a vivere, davvero. Perché quel giorno di cui parlavano i medici, poteva essere dopo una settimana, dopo l’ennesima otite oppure non sarebbe mai arrivato. Il mio nome è Mary Del Vecchio e questa è la mia storia.

Abituati a rischiare

Quattro anni fa, a diciotto anni, non sapevo cosa volevo diventare e non lo so neanche ora. Non lo saprò neanche quando sarò diventata qualcuno. La cosa che so per certo, è che ora sono una persona migliore, perché consapevole delle mie azioni e perché vivo, non sopravvivo. Era una mattina come le altre, anzi no, era diversa. Era una mattina diversa dalle altre, perché avevo deciso di riprendere a fare sport: volevo ricominciare a nuotare. Alla fine, quel giorno di cui parlavano sarebbe arrivato, indipendentemente dalla vita che decidevo di vivere. Credo.

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Prendevo il pullman, in ritardo, ma sempre puntuale nel ritardo. Finito di nuotare, tornavo a casa, mangiavo e studiavo. Una bella vita, finché non è arrivato il male di vivere: l’otite. Ne è arrivata una, poi la seconda, poi ancora tante, fino a non accorgermi più. I medici mi curavano sempre nello stesso modo e la storiella di una me sorda, era sempre la loro preferita. Nonostante la mia giovane età, nonostante il mio percorso di studi non medico, ho deciso che non avevano ragione. Ho deciso che doveva cambiare qualcosa: dovevo essere operata.

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Ho cambiato medico, mi hanno operata e non diventerò sorda. Era una mattina come le altre, anzi no, era diversa. Era una mattina diversa dalle altre perché l’università, il volontariato, l’amore che non va (perennemente) e la musica, non bastano. Non bastano perché ormai sono quotidianità. Ho bisogno di stimoli. Nuovi. Stimoli nuovi. Passeggio nel mio paese, non mi basta. Passeggio per Milano, non mi basta. Cambio posto, vado all’Idroscalo – è qui attaccato e non ci vai mai, dicono. Ed è così che mi immobilizzo.

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Mi immobilizzo davanti a questi canottieri dai fisici non perfetti, ma abbastanza giusti per poter dominare l’acqua. Ed è lì che capisco che potrebbe essere il mio sport. A contatto con l’acqua, ma non immersa. Il mio orecchio sorride. E poi c’è questa filosofia, così invisibile, ma che mi affascina. Un canottiere stringe un rapporto di fiducia tra sé, la sua barca e la natura. Un canottiere si fida di quello che verrà, rivolgendosi sempre al passato. Remata dopo remata, un canottiere migliora. Che sia il rumore di una ventola, di un remo che affonda, la voce di un’allenatrice che ti implora di usare quelle gambe, perché i muscoli ce li hai. Ed è così che con un occhio sempre verso il passato, decido di andare avanti.

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“Il canottaggio è fisica e fisico”, mi dice Raffaele Mautone, qualche mese dopo quel mio primo incontro con questo mondo. Sento i respiri, l’acqua, un passante che saluta distrattamente il suo amico. Ed è come quando impari ad andare in bicicletta, ti accorgi solo dopo che ti sei abituato che stai andando. Da solo. Ed è in questo silenzio, in questa abitudine, in questa vita condensata, divisa tra gli impegni e unita nella determinazione, che decido di tacere. Non mi guardo le spalle. Mi fido. Testa alta, mi aggrappo ai remi, socchiudo gli occhi e sogno.

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